Il
lutto della socialità passa e si realizza per l’estraniamento
fisico dal luogo dell’incontro. Quando l’agorà perde il
significato di luogo amico per un ispessimento del sospetto emotivo
come rifiuto dell’esterno, è allora che l’interiorità esplode
in rivoli di fortissima corrente anti-umana. La privazione
dell’umanità come alienazione è il passo più importante verso la
morte, un istinto di thanatos che valica il rassicurante primato
della vita rompendo l’equilibrio dinamico in essere tra gli istinti
primordiali conferendo fascino estremo alla punizione psicologica
verso una colpa dell’ontogenesi umana: l’emotività. I colori non
colori frustrano immediatamente la ricerca di una soluzione vicina
alla riscoperta del mondo altro, di un’alterità umana distante e
impossibile ad accedersi. Il lutto dell’emotività frustrata dalla
clausura forzosa emerge in una cervellotica ricerca di senso del sé
che è tradotta nella ripetizione “liturgica” delle parole sulla
forma, quasi una didascalia del dolore che si traduce in spasmo
fortissimo nella mano aperta, tesa, angosciosamente ferma innanzi al
fuoco del tutto, un primato della violenta lotta intrapersonale, ma
anche significato di coprimento della sofferenza con il suo porsi
davanti al tutto. Una testa presente, importante per forma e
grandezza, grande imputata del malessere imperante, colpevole senza
garanzia di discolparsi, naturalmente causa di un dolore interno
straziante, cervellotico fin dalle prime battute, immersa nelle
parole, negli spergiuri di un’innocenza della mente umana. Ancora
la mano, forse anche simbolo di riscatto perché quest’arto è il
simbolo del fare, dell’impegno, della stessa forza che ha prodotto
l’opera, riscatto del dolore, prova che la manualità, la
praticità, sono ottimi espedienti di fuga dai pensieri o, almeno, un
loro incanalamento.
Giuseppe
Marrone